Mestieri di una volta

Il pane della povera gente

La castagna, delizioso cibo, oggi assai dimenticato a favore di frutti ritenuti più prelibati, forse perché esotici, ha però avuto un ruolo di primo piano nella storia dell'alimentazione dei ticinesi.

Nel Ticino il castagno è distribuito dappertutto, dal Mendrisiotto alla Leventina. La storia ticinese di questo albero non è stata scritta ma le località dove sono situati i castagneti, le selve castanili, quasi sempre vicino ai villaggi dimostrano che la loro introduzione sia dovuta all'uomo. Il botanico H. Zoller, lo studioso di pollini che ha fatto le sue analisi anche nei terreni ticinesi, sostiene che nel cantone il castagno è apparso poco più di 2000 anni fa. Nei primi secoli dopo Cristo, con la romanizzazione dei nostri territori il castagno si diffonde a macchia d'olio. Ciò potrebbe far pensare che all'inizio della nostra era il Ticino fosse ben poco abitato: salvo qualche comunità lungo le vie d'acqua, laghi e grandi fiumi o vicino alla via commerciale che lo attraversava.

Nel suo trattato sull'agricoltura, Varrone (116-27 a.C.) raccomandava le castagne unicamente come foraggio per gli animali, mentre il grande poeta Virgilio (70-19 a.C.), figlio di agricoltori, ricorda la castagna come alimento popolare rustico.

Anche se gli indizi sono pochi una cosa è certa: in Ticino la castagna era utilizzata come alimento dalla popolazione fin dall'alto Medio Evo.

Durante gli scavi archeologici nel vecchio quartiere Maghetti è stato trovato un deposito essicatoio per le castagne, datato attorno all'anno Mille. E nelle sue vicinanze una rongia faceva funzionare un frantoio e un piccolo maglio.

Liti di confine sorsero tra Urani e il Ducato di Milano per boschi di castagno, fin dal 1440. Un pretesto almeno, se non il vero motivo che diede luogo alla battaglia dei Sassi Grossi presso Giornico nel 1478 fu la raccolta delle castagne. Nella Storia del Cantone Ticino, a proposito di questa battaglia, Rossi e Pometta scrivevano: "Si appressava l'inverno: i Leventinesi, proprietari di selve di castagno sui territori milanesi di Iragna, Lodrino e Moleno, non avevano potuto fare la raccolta delle castagne perché fuori dal loro Stato; e ciò li privava del loro cibo indispensabile."

In alcune chiese affrescate in quel periodo, attorno al XV secolo, troviamo i dipinti dei mesi, con le rappresentazioni dei lavori dei contadini nei campi.

Nei mesi autunnali sono dipinti soprattutto i mestieri del bottaio e del raccoglitore di castagne. Nella chiesa di Santa Maria del Castello di Mesocco un affresco mostra un castagnaro vestito di modesti panni mentre scuote dall'albero i ricci che una prosperosa moglie raccoglie servendosi di un legno appositamente ripiegato, mentre nella chiesa di San Martino a Ronco sopra Ascona è affrescato un giovane ben paffuto mentre abbacchia un albero di castagno per farne cadere i frutti.

Nel 1570 poi, le castagne assursero a "casus belli" fra l'arciprete di Balerna che pretendeva per tradizione il pagamento della decima o ventesima su tutti i raccolti da parte della comunità di Caneggio. Leggiamo a questo proposito in un documento dell'arciprete che gli "huomini di Canegio (...) debbano pagare (...) la decima generalmente di ogni sorta di grano grosso et minuto et d'altri frutti che si raccolgono (...) et vino et castagne, che si raccolgono (...) almeno di ogni vinti uno". Avendo un bel giorno i Caneggini opposto un netto rifiuto, la contesa arrivò fino in Vaticano a Roma e fu risolta con sottile diplomazia addirittura dal Pontefice, il grande Gregorio XIII, quello del calendario attuale. Egli abolì la ventesima sul vino e sulle castagne, ma obbligò i Caneggini a pagare un contributo simbolico all'esigente arciprete. Le decime furono poi abolite definitivamente soltanto da Napoleone.

Per i ticinesi di questi tempi di prosperità e di consumo sfrenato, non è quasi immaginabile che un tempo non tanto così lontano, esistesse della gente che anche solo una ventesima del raccolto potesse contare per la loro sopravvivenza.

"La cena del paesano ticinese - raccontava Stefano Franscini verso la metà del XIX secolo - suol essere una minestra di riso, quando con pomi di terra, quando con fagioli o altro prodotto dei campi e degli orti (...) Va senza dirlo che le famiglie più tapine sono talvolta costrette a cenare non con altro che con castagne o con pomi di terra".

Nelle valli ticinesi la castagna ha continuato ad essere apprezzata, coltivata e raccolta fino all'inizio dell'era spaziale.

Il frutto del castagno rappresentò uno dei componenti principali dell'alimentazione della popolazione fino all'arrivo della patata e del granoturco, e ciò grazie al suo valore nutritivo. A seconda di come veniva conservata, essa poteva durare anche per più stagioni e quindi serviva come nutrimento quasi per tutto l'anno. Si poteva mangiarla cruda appena matura, oppure bollita o arrostita. Fatta seccare, veniva macinata al mulino e la farina estrattane, era ottima per preparare pane e altre pietanze. I bambini di una volta tenevano in bocca le castagne secche finché, ammorbidite dalla saliva, diventavano masticabili: erano le caramelle di quella gente modesta che altro non conosceva.

Dall'Italia era giunto in Ticino fin dal Medio Evo un sistema tutto particolare per la preparazione e la conservazione delle castagne.

Racconta a questo proposito Giuseppe Zoppi: "Intanto nelle selve, maturavano via via, fra alternative di pioggia e di bel tempo, i frutti del castagno. E cominciava per noi questa raccolta che non era propriamente un gioco: la maggior parte dei nostri castagni non si trovava già nei prati, né in luoghi facili, ma su per pendii ripidi, sassosi (...) Le castagne raccolte andavano a formare, in solaio, un mucchio che si allargava ogni giorno più. Poi si trasceglievano le piccole dalle grosse. Solo quest'ultime erano salvate per l'inverno, o messe a seccare, per mesi e mesi, sopra il lento fuoco dei metati, i quali nel nostro dialetto si chiamano "grà".

Nel bel mezzo dell'autunno chi passava nei paesini della Valle Maggia o della Verzasca soprattutto il mattino quando cominciava a far freddo, poteva vedere lingue di fumo uscire dai tetti di pietra di caratteristiche casupole tutte di sasso: erano le grà che fumavano. Queste simpatiche e minuscole costruzioni, alte perlopiù tre o al massimo 4 metri, erano a due piani. Chi avesse aperto l'uscio del pian terreno, avrebbe veduto sul pavimento di pietra un fuoco che bruciava lentamente, diffondendo un calore uniforme e ad altezza d'uomo, una graticola di tondini di legno appoggiati uno accanto all'altro. Al di sopra di questo ripiano si apriva una porticina o una finestra attraverso la quale si introducevano i cesti di castagne che venivano sparse su quella specie di graticcio. Lo strato di castagne aveva normalmente uno spessore di 25-30 centimetri, ma talvolta poteva arrivare anche a mezzo metro. Il fuoco sul pavimento sottostante doveva essere moderato e costante per almeno tre settimane fin quando le castagne diventavano secche e bianche. Le donne durante quel periodo, si alzavano più volte per notte avviandosi verso la grà per riattizzare il fuoco e rimestare lo strato di castagne. Poi quando queste erano a punto, venivano sbucciate. I modi di battitura per rompere la buccia erano differenti da valle a valle, ma il migliore sistema era quello della battitura come era eseguito a Linescio, a Moghegno, a Lavertezzo. Le castagne, messe in sacchetti di canapa, si sbattevano contro un ceppo. In seguito si separava la buccia dalle castagne con il "vall" (vaglio o ventilabro), un'operazione eseguita dalle femminili abili mani di alcune donne, in cui la buccia volava via e le bianche castagne rimanevano in un angolo del "vall"

Le castagne sbucciate venivano macinate per farne focacce o dolci, oppure bollite. Con una nota gentile Giovanni Bianconi ricorda anche come esse "venivano distribuite dalla sposa il giorno delle nozze come si usa oggidì con i confetti".

"Una o due volte all'anno, non di più, le mangiavamo cotte con la panna: squisitezza tanto più gradita quanto più rara" raccontava Giuseppe Zoppi. Insomma era un po' la regina della cucina delle famiglie modeste. Molte grà sono state abbandonate all'opera disgregatrice del tempo, le più fortunate sono state trasformate in ripostigli o pollai.

 

 

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